Il panorama economico-finanziario internazionale si presenta assai complicato.
Il mondo, infatti, si affaccia su una voragine di debito totale (pubblico + privato) nell’ordine dei 300 trilioni di dollari, tre volte e mezzo il PIL mondiale, con tassi d’interesse in ascesa a fronte dell’esaurimento delle politiche monetarie espansive.
L’economia mondiale è in frenata e in viaggio verso la recessione.
Per l'Italia dati e previsioni sono meno negativi, almeno per l’anno in corso; ma l’inflazione morde, lo spread tende ad ampliarsi, il servizio del debito si appesantisce e nessuno sa se l’ulteriore indebitamento, appena deliberato, stimolerà effettivamente l’attività economica.
In questo quadro, si è riacceso il dibattito sul rapporto tra il nostro debito pubblico e il PIL.
Per abbassarlo il debito pubblico, classicamente si fronteggiano due posizioni:
- La destra è per tagli alla spesa sociale, privatizzazioni, austerity, onde ridurre la grandezza al numeratore. Una ricetta tristemente nota, che ha creato disastri economici e sociali, denunciati e illustrati da numerosi scienziati sociali, tra cui A. Atkinson (nella foto), S. Biasco, P. L. Ciocca, L. Gallino, S. Keen, P. Krugman, T. Piketty, D. Rodrik, N. Roubini, G. Ruffolo, R. Shiller, J. E. Stiglitz; e, più di recente, da A. Boitani e, su contenuti più strettamente politici, da P. Gerbaudo.
- La sinistra propone l’accelerazione della crescita, per aumentare la grandezza al denominatore; ma, nelle attuali condizioni, non è affatto certo che le tradizionali politiche di stimolo riescano ad accelerare abbastanza l’economia, con il rischio che l’effetto sulla finanza pubblica sia irrilevante.
Questa tradizionale alternativa è data da più parti come datata, schematica e inadeguata.
Più convincente mi sembra l’idea di operare a un tempo su entrambi i termini – numeratore e denominatore – del rapporto debito/PIL; al fine di non compromettere gli obiettivi di risanamento finanziario, evitando ulteriori danni sociali e senza stressare le politiche di crescita al punto di allontanare il conseguimento degli obiettivi ambientali.
Come suggerisce E. Brancaccio, una strada può essere quella di bloccare il tasso d’interesse, affinché resti sempre inferiore a quello di crescita, con il risultato di alleggerire gradualmente la posizione debitoria anche per questa via.
Insomma, l’andamento del tasso d’interesse non sarebbe più in balia dei mercati finanziari, ma tornerebbe a essere uno strumento di una politica monetaria volta sia a riportare in ordine i conti pubblici, che a scongiurare la catastrofe sociale e rilevanti danni al funzionamento dell’economia.
La globalizzazione liberista è stata caratterizzata da un elevato rendimento del capitale a fronte di una crescita relativamente debole. È quindi aumentato il rapporto capitale/reddito e sono esplose le disuguaglianze creando una grande frattura sociale e un gravissimo deterioramento della democrazia. In misura tale da prefigurare il regresso verso la società di rentiers, o la democrazia dei signori paventata da L. Canfora.
Sappiamo anche che c’è in giro tanta cattiva economia (A. V Banerjee ed E. Duflo), che sono necessari investimenti enormi in beni materiali e servizi sociali e una guida per cambiare il capitalismo (M. Mazzucato). Sappiamo anche che le dimensioni del nostro debito rendono pericolosamente fragile il nostro posizionamento finanziario.
Appare quindi necessario un rinnovato ruolo attivo dello stato (ruolo di investitore di prima istanza, secondo Mazzucato); e, in questa prospettiva, l’impiego del tasso d’interesse come leva di politica economica può rappresentare uno strumento nuovamente utile ed efficace.
AntoninoAndreotti@euroeconomie.it