Euroeconomie persegue da tempo una articolata politica informativa sui progressi dei modelli di sviluppo sostenibile nell'Unione europea. In questo quadro, presentiamo la conversazione di Alessandro Mauriello con Silvana Paruolo in tema di etica delle imprese europee e catene di forniture globali anche alla luce del blocco, a fine febbraio da parte del Coreper, della Direttiva UE sulla responsabilità delle aziende nella violazioni dei diritti umani e ambientali.
Buona lettura.
Alessandro Mauriello - Etica delle imprese, imprese transnazionali e catene di forniture, blocco della Direttiva UE sulla sostenibilità, ci aiuta a capire di cosa stiamo parlando?
Silvana Paruolo - In particolare, nel secondo dopoguerra e negli anni ‘60 e ‘70 del Secolo scorso - in un’ottica di riduzione dei costi e di efficienza -- si è affermata la tendenza a sostituire l’esportazione di prodotti finiti con Investimenti Diretti in Stati, diversi da quello dove si trova la sede principale di una società o Gruppo, acquistando, a prezzi più competitivi, beni o servizi offerti da soggetti specializzati. Da qui l’affermarsi di nuovi assetti del mondo della produzione: e le cosiddette catene globali di fornitura (definite anche catene globali di approvvigionamento, e catene globali del valore). Queste catene di fornitura sono caratterizzate da forte frammentazione e scarsissima diversificazione. E - come emerso durante la pandemia da Covid - sono particolarmente vulnerabili a interruzioni impreviste, con tutto ciò che questo comporta.
Estremamente complesse (e articolate) occupano centinaia di milioni di lavoratori in più Paesi. Ma, spesso – nel corso della catena - i diritti umani e il diritto a un lavoro dignitoso, e la tutela dell’ambiente, vi sono violati. E i rappresentanti di lavoratrici e lavoratori sono penalizzati e, in alcuni Paesi, anche perseguitati ed uccisi. Tuttavia la proposta di elaborare uno strumento vincolante per promuovere il rispetto dei diritti umani – anche in questi contesti- resta tuttora controversa, sia alle Nazioni unite sia nell’UE. Il recente blocco della proposta di Direttiva UE sulla responsabilità delle aziende nella violazione dei diritti umani e ambientali ne è l’ennesima prova. Tra parentesi, a questa ampia problematica, nel mio ultimo L’Unione europea Origini Presente Prospettive future (2021) - ho dedicato un intero capitolo.
A.M. - Ma – procedendo con ordine – a cosa pensa quando parla di violazioni dei diritti umani?
S.P. - Un esempio per tutti? Basti pensare alla tragedia del Rana Plaza in Bangladesh (24 aprile 2013) in cui morirono più di 1.200 persone per il crollo di una fabbrica - i cui lavoratori operavano per marchi tessili occidentali (ritrovati tra le macerie) – cui prima del crollo era stata concessa l’idoneità e una valutazione positiva. Esiste una probabilità molto alta che i prodotti di abbigliamento, alimentari ed elettronici che acquistiamo siano passati attraverso una catena di fornitura dove si pratica lavoro infantile, schiavitù e sfruttamento. La schiavitù moderna include una serie di pratiche di sfruttamento, quali il lavoro forzato, il matrimonio forzato, la tratta di esseri umani, la schiavitù per debiti e il lavoro forzato imposto dallo Stato (come in Cina, nella Corea del Nord ed in Eritrea).
A.M. E l’autoregolamentazione? Non ha funzionato?
S.P. Decenni di Codici di condotta, Piani di vigilanza e Rapporti – unilaterali - hanno dimostrato che l’approccio volontaristico, ispirato dalla Responsabilità sociale delle imprese, è in sé insufficiente a garantire un’effettiva protezione dei diritti sociali - di un lavoro per tutti dignitoso - e dell’ambiente. L’autoregolamentazione tramite iniziative volontarie di Responsabilità sociale d’impresa - e Codici di condotta unilateralmente adottati dalle imprese transnazionali – hanno mostrato forti limiti di efficacia. E la stessa cosa si può dire anche per le Leggi nazionali, adottate da più Paesi, e anche da Francia e Germania.
A.M. Da qui la proposta della Commissione europea di una Direttiva UE sulla responsabilità delle aziende nella violazioni dei diritti umani e ambientali, cioè, sul dovere di diligenza da parte delle imprese?
S.P. Esatto. Presentata nel febbraio 2022 - promossa dalla Commissione europea (e fortemente sostenuta da sindacati e Parlamento europeo) - la proposta della Commissione prevede l'obbligo per le imprese di individuare i rischi, evitare, far cessare o attenuare gli effetti negativi delle loro attività sui diritti umani (come il lavoro minorile e lo sfruttamento dei lavoratori) e sull'ambiente (come l'inquinamento e la perdita di biodiversità).
Il suo campo di applicazione, all’inizio, riguarda le aziende con più di 500 occupati e un fatturato di almeno 150 milioni di euro. Dopo tre anni dalla sua entrata in vigore, riguarda anche quelle con oltre 250 occupati e un fatturato annuo superiore a 40 milioni di euro, ma solo se operano in settori a rischio come il tessile-abbigliamento, l’agro alimentare o l’estrattivo. Non riguarda quindi imprese di piccole dimensioni.
Per promuovere un comportamento societario sostenibile e responsabile, la proposta di Direttiva obbliga le aziende a verificare - con la dovuta diligenza - che al proprio interno e nella loro catena di attività vengano rispettati i diritti umani anche al fine di prevenire danni all’ambiente. E tenta - per garantire parità di condizioni alle imprese – di instaurare regole valide in tutta l’Unione europea. Per esempio, regole quali l’obbligo delle imprese a verificare se un fornitore è affidabile non solo economicamente ma anche socialmente. E - per impedire che le imprese rimangano impunite se non sono state attente al rispetto dei diritti umani e ambientali – norme in materia di sanzioni se le imprese, di proposito o per negligenza, diventano complici di chi, lavorando per loro, viola i diritti umani.
A.M. Questa proposta di Direttiva sembrava in dirittura di arrivo dopo l’accordo politico a livello di trilogo. Chi l’ha bloccata, il 9 febbraio 2024?
S.P. Le aziende - secondo la Direttiva quale uscita dalle trattative interistituzionali - avrebbero dovuto “identificare, valutare, prevenire, mitigare, porre rimedio all’impatto negativo su diritti umani e ambiente (lavoro minorile, schiavitù, sfruttamento del lavoro, inquinamento, deforestazione, consumo eccessivo di acqua o danni agli ecosistemi) - proprio e di propri partner - a monte e a valle della catena di attività (produzione, fornitura, trasporto e stoccaggio, progettazione e distribuzione).
Germania e Francia hanno già leggi nazionali per la difesa dei diritti umani e altri Stati membri si apprestano a varare le loro. Una Direttiva comunitaria eviterebbe i costi e i problemi collegati a tanti diversi obblighi normativi a livello nazionale, e potrebbe aiutare a individuare aziende virtuose - e realmente sostenibili – da premiare (per esempio, nelle procedure di appalto pubblico). Ma il 9 febbraio si è optato per un suo blocco. Come rilevato da studiosi - e sindacati - per alcune associazioni imprenditoriali (fra cui Confindustria) e alcuni Stati (come la Germania che nella coalizione al governo ha anche i Liberali della Fdp) - la nuova direttiva norma crei inutili, pesanti oneri burocratici a danno delle aziende e delle piccole e medie imprese. Temono che applicare la due diligence vuol dire che le imprese devono sostituirsi agli Stati nel controllo sulle violazioni ai diritti umani. E che le aziende abbiano una responsabilità “oggettiva” quando un loro fornitore vieta ai dipendenti di associarsi in un sindacato o li sfrutta.
Il 9 febbraio 2024, la Presidenza belga del Consiglio dell’UE, appurato che anche l’Italia aveva l’intenzione, astenendosi, di accodarsi alla Germania - oltre ad altri Paesi (Austria, Finlandia ecc.) - ha preferito non procedere al voto e rinviarlo a data da destinarsi, prendendosi il tempo di tentare un’ulteriore opera di convincimento. Non è la prima volta che un testo approvato ai triloghi salta in Consiglio. E’ già successo anche con il Regolamento sulle emissioni degli autoveicoli, bloccato da Berlino, sempre su input dei Liberali della Fdp. Ed è successo quando (in sede Coreper) Francia, Germania, Estonia e Grecia hanno bloccato la direttiva rider, e cioè, la norma che avrebbe garantito più diritti ai lavoratori su piattaforma. Bastano quattro Paesi membri che non votano a favore, perché una Direttiva ritorni allo stadio precedente quello dei negoziati con il Parlamento europeo.
A.M. E ora?
S.P. Resta da vedere se la Presidenza belga riuscirà a sbloccare la situazione, prima delle prossime elezioni politiche europee del giugno 2024, il che significa prima dello scioglimento dell’attuale Parlamento europeo. Ma resta anche da lavorare molto affinché i paesi del Sud Globale, dei Brics ecc - e le imprese da loro provenienti - imbocchino anche loro (e senza esitazioni) la strada del rispetto della sostenibilità, dei diritti umani e di un lavoro dignitoso. Lavoratrici e lavoratori hanno diritto a un lavoro dignitoso, a prescindere dal Gruppo per cui lavorano, e a prescindere dalla loro lingua razza religione nazionalità… E i cambiamenti climatici (e i loro effetti) non conoscono frontiere. Intanto… va detto anche che c’è un numero crescente di investitori, finanziatori e azionisti che chiede alle imprese una maggiore trasparenza sulle pratiche di lavoro (e tutela ambientale) adottate nell’intera catena.
Vi sono utili campagne su scala globale (quali ad esempio la “Campagna Abiti Puliti) che mirano a sensibilizzare i consumatori.
E un contributo nel senso giusto viene di certo anche dal dialogo sociale transnazionale e gli Accordi quadro - globali internazionali e transnazionali – che ne sono derivati. Nel 2017, su 182 Accordi (IFA/GFA), 155 sono stati conclusi da un’impresa di provenienza europea. Prima del nuovo approccio, gli Accordi erano per lo più incentrati sulla definizione di standard minimi di carattere sostanziale.
Gli Accordi di nuova generazione – richiamano quanto finora varato in ambito OCSE Onu e dell’Organizzazione internazionale del Lavoro (le sue 8 Convenzioni fondamentali - sul lavoro forzato; sulla libertà di associazione sindacale; sul diritto di organizzazione e contrattazione collettiva; sulla parità di retribuzione tra uomo e donna; sull’abolizione del lavoro forzato; sulle discriminazioni; sull’età minima; sulle peggiori forme di lavoro minorile - ecc.) – ma combinano anche più strategie che vanno dal monitoraggio congiunto (di imprese e rappresentanti dei lavoratori e sindacati) dell’implementazione effettiva dell’accordo a livello locale, alla promozione di dialogo sociale e pratiche partecipative (che in alcuni paesi hanno anche consentito il reintegro di sindacalisti e lavoratori licenziati per le loro denunce di abusi e richiesta di equità e diritti sociali).